lunedì 29 ottobre 2007

Tagliare la corda o tagliare la spesa?

Ma ciao!

Dunque si parla di potere d'acquisto.
Ma come incrementarlo?

Direi di fare un passo indietro.
L'Italia si dibatte in due annosi problemi: l'abnorme debito pubblico da una parte, l'incapacità di ridurre la spesa (specie quella corrente, vale a dire non in conto capitale, in investimenti) dall'altra.
Date queste premesse, è facile capire come ridurre le imposte sia sempre stata un'impresa pressochè impossibile, nel nostro Paese.
Con quali soldi si sarebbe pagato il servizio sul debito (che non è propriamente un sacchetto di noccioline, ma una montagna di circa 80 miliardi l'anno)? Incrementando il debito stesso, forse?
Maastricht e ogni testo di macroeconomia lo sconsigliano vivamente.
Allo stesso modo, ammesso che un governo avesse abbastanza coraggio da abbassare le imposte unitamente alla spesa corrente, con ogni probabilità sarebbe falciato alla prima tornata amministrativa.

Eppure la riduzione della pressione fiscale potrebbe essere la soluzione che cercavamo, molto più efficente peraltro di un semplice processo di redistribuzione (almeno teorica) operato alzando le aliquote e poi pompando il potere d'acquisto col nuovo gettito a disposizione.
Infatti, la tassazione, sotto qualunque forma, genera perdita secca

"Una tassa provoca una perdita secca per la società, perché una quantità minore del bene è prodotta e consumata, rispetto al caso di assenza della tassa. "

Aumentare le tasse, quindi, genera danni.

Diminuirle, al contrario, comporta ritorni più che proporzionali!

A pensarci, la portata di questo semplice ragionamento è ampia.
Da una parte avremmo lo Stato che abbassando l'aliquota da x ad y su un imponibile Z, si ritroverebbe ad applicare automaticamente y su Z + ΔZ.
La società, d'altrocanto, produrrebbe di più e sborserebbe allo sceriffo di Nottingham una quota proporzionalmente inferiore.

Tutto molto bello, direte. Ma come coniugare questo alle considerazioni fatte all'inizio?

La mia risposta è semplice: con adeguati sacrifici.
E i sacrifici vanno soprattutto sotto il nome di "tagli alla spesa corrente", con tutte le conseguenze. Bando agli sprechi, dunque, ma anche a pretese anacronistiche o dettate da logiche politiche: non è dilapidando tesoretti che daremo un futuro a questa Nazione.


Henry


P.S.
Per un'esauriente spiegazione sul concetto di perdita secca, vedi qui.

sabato 27 ottobre 2007

Pressione fiscale e redistrizibuzione del reddito

In quali parti tagliare la torta?

Non si sbaglia quando si dice che 7 milioni e mezzo di famiglie sono "una risorsa a portata di mano".
Il problema è che queste milioni di persone esercitano già una domanda, chiedendo money a discapito del value.
La congiuntura attuale del mercato è un pò strana: i consumatori domandano money, ma in realtà chiedono value.
Questo si evidenzia nella distribuzione; per esempio sono fiorenti i negozietti specializzati che offrono prodotti freschi, come le rosticcerie, le pescherie, i negozi di ortofrutta. Nei PDV della grande distribuzione, gran parte del fatturato ora viene prodotto dalla vendita di merce "fresca", come verdura, frutta, carni.

In altri termini, c'è una richiesta di convenienza che potrebbe venire sostituita da una richiesta di valore se il potere di acquisto aumentasse.

Che sia questa massa enorme di persone a domandare money?

I consumi stagnano, i prezzi delle materie prime crescono, il malcontento popolare come si suol dire serpeggia (il fenomeno Grillo ma non solo), la politica italiana bloccata da una maggioranza che non mi vergogno a definire ridicola e che mantiene il Paese in una situazione di dannosa incertezza.

Arrivando al dunque, a mio parere la situazione non può essere risollevata dalla sola Politica o dalla sola Economia.
Sono necessari sforzi da entrambe le parti poichè le potenzialità, a mio avviso, ci sono.
C'è una grande domanda che, a causa delle condizioni economiche, viene evasa da prodotti a basso prezzo e basso valore aggiunto.
Un esempio emblematico sono i capi di vestiario di produzione cinese, notoriamente di qualità inferiore a quella italiana, che sono entrati negli armadi di gran parte dei cittadini italiani, o come l'espansione di catene come LIDL che puntano tutta la loro forza sul prezzo.

Quindi il nocciolo della questione dove si trova?

Torniamo a parlare di potere d'acquisto, che sembra essere il concetto chiave del ragionamento.
Il potere di acquisto dei lavoratori è dato dal loro stipendio.
Vi sono poi fattori accessori come eventuali rendite dal risparmio accumulato in precedenza o donazioni/eredità che al momento non considererei fondamentali per arrivare al punto della situazione in quanto privilegio di una esigua minoranza (presumo) di queste famiglie.

Come si può aumentare il potere di acquisto?

Una domanda con tante possibili risposte, le quali comportano sempre conseguenze.

Le proposte sono:

  • Diminuire la tassazione ai dipendenti
  • Diminuire i contributi che le imprese sono tenute a versare
  • Approntare misure di Welfare sociale per i più poveri
  • Incentivare le aziende a pagare meglio e di più i propri dipendenti
  • ...
  • Eccetera

Ci sono tante soluzioni da approntare.

Il problema, per non scontentare nessuno, è che andrebbero prese aumentando il debito pubblico per sovvenzionare questi interventi.

Visto che però (giustamente) non si può fare, cosa ne pensi?

Quale strada è meglio seguire?

Io una mezza idea di quello che farà la politica ce l'ho, ma voglio sentire il parere del mio socio.

mercoledì 24 ottobre 2007

Rieccomi!

Dopo aver ricevuto supporto e condivisione da parte del collega, posso ripartire!

La lunga e sconclusionata premessa del post precedente per dire una cosa: l'Italia è un'economia industrializzata? Sì? Bene, tale resta.

Assunto: produzione e ricchezza si basano sulla domanda.
Sette milioni e mezzo di famiglie povere sono sì una piaga, ma anche una sacca formidabile, una risorsa a portata di mano. La domanda potenziale di questi soggetti è talmente elevata da poter generare effetti estremamente rilevanti dal punto di vista produttivo.

D'altraparte, il fatto stesso che siano qualificate come povere significa che, se dotate di potere d'acquisto, con ogni probabilità lo spenderebbero per far fronte a bisogni più o meno pressanti.

Le parole in rosso rappresentano il problema.
E fin qui le banalità.
Tiziano, che proposte hai?


P.S.
Sì, ho notato anche io l'investitura plebiscitaria di Veltroni... ma dì un po', tu che sei bene informato, c'erano altri candidati???


Henry

lunedì 15 ottobre 2007

Walter Veltroni alla guida del PD: ed ora... Si deve correre per il Cittadino


Oggi 15 ottobre sappiamo che Walter Veltroni è diventato leader del PD.
Davvero ce ne accorgiamo solo oggi?
In realtà, senza nulla voler togliere alle oltre 3 milioni di persone che sono andate a votare domenica, non si è trattato di vere primarie, ma piuttosto di un'elezione diretta del Segretario Nazionale del PD, per puntualizzare.
Un bellissimo esercizio di democrazia, potremmo dire quasi naturale, in un paese in cui vige tale forma di governo e in un partito che ne fa proprio l'aggettivo.

Da questo PD allora è naturale aspettarsi il cambiamento della legge elettorale reintroducendo la preferenza diretta che il Cittadino da al candidato.
Se il candidato alla Segreteria è stato scelto in modo democratico tramite elezione, allora è giusto che anche il parlamento possa essere scelto tramite elezione diretta e che NON sia più nominato dai partiti.

Come cittadini italiani pretendiamo che ora il PD si impegni a reintrodurre la preferenza diretta nella legge elettorale, dopo averla usata con successo alle proprie primarie.

Magari potrebbero farlo promuovendo la Proposta di Legge Popolare sul Parlamento Pulito firmata da 320.000 persone in tutta Italia nel V-Day, l'8 settembre.

Sarebbe un segnale forte, importante di un cambiamento della politica finalmente al servizio del cittadino, scopando fuori dalla porta i condannati e gli istrioni attualmente presenti in parlamento.

Due piccioni con una legge.

Tiziano


PS: sull'articolo di Henry non posso che concordare, ricordando la crisi degli USA del '29 e poi dell' '87. In entrambi i casi ci sono stati dolorissimi periodi, anche di regressione, ma una volta che le infrastrutture ci sono, la capacità produttiva non può regredire se non per mancanza di materie prime, forza lavoro (che nei periodi di regressione non manca) o persistente domanda con un trend fortemente negativo.

giovedì 4 ottobre 2007

(Quasi) 8 milioni di baionette



Ciao,

La notizia che rimbomba oggi su TG e giornali è di quelle alle quali ormai si è assuefatti: la povertà in Italia è un fatto. L'Istat quantifica la piaga in 7 milioni e mezzo di famiglie. Un bell'esercito.

In questo post non ho però intenzione di lamentarmi, disegnare scenari apocalittici o vaticinare un irreversibile declino economico e sociale della nazione.
Al contrario, penso che per una volta potrebbe essere interessante ribaltare il problema, e trasformarlo in un'opportunità.

Come ben sappiamo, le difficoltà nelle quali si dibatte l'Italia sono dovute a parecchi fattori: debito pubblico, infrastrutture insufficienti e spesso da ammodernare, storture e strozzature dello sviluppo, limitato livello del sviluppo del Mezzogiorno, mafia e chi più ne ha più ne metta.
La globalizzazione, tuttavia, ha amplificato le nostre difficoltà, trascinandoci ad una velocità troppo elevata rispetto ai nostri tempi di reazione in un'arena ipercompetitiva.
Se la nostra economia boccheggia, il motivo è da ricercare soprattutto nella difficoltà che le nostre imprese riscontrano sui mercati internazionali. Scontiamo, in altre parole, un deficit di competitività.

Ora, una nazione sviluppata non può regredire. Può fermarsi, stagnare, subire crisi dolorose, ma una volta raggiunto lo status di paese industrializzato non è consentito tornare indietro, la natura stessa del tessuto produttivo lo impedisce.

Adesso però voglio tentare un esperimento: vediamo se il mio buon amico Tiziano è d'accordo con questa mia disamina o ritiene ci siano aggiunte e correzioni da apportare.
Prima di spingermi oltre voglio avere le spalle coperte! :P

Henry